Ho visto Acse come mamma l’ha fatta… *espressione da Pierino*
Niente paura, resiste, ha il sangue forte. Lei. Un po’ raffreddata, ma le strade disgraziate non l’hanno lesa più di tanto. Interni cigolanti a parte.
‘Mi arrabbio pe stu fatt cà, io voglio sapere le notizie italiane’
A mia zia tutto ciò che passa per la tivù e non è italiano sta proprio sulle scatole. Che ganza che è!
Ok ok, un post un po’ così…oggi non voglio lamentarmi di nulla. Domani. Forse.
Ho rivisto zia Maria. Erano almeno 13 anni che non passavo a trovarla, c’era ancora zio Tommaso.
Andammo lì con i nonni, io e mia cugina, e giocammo con le sue nipotine mentre i grandi parlavano ore ed ore. Le nipotine adesso sono grandi, la più piccola ha 17 anni e non ricorda di avermi visto mai. Io, figurati, con la memoria che ho non ne rammentavo neppure il nome.
Quando parla le si illuminano gli occhioni chiari, tondi si allargano e sorridono elettrizzati. Occhi che hanno visto 82 anni di cose scaturiscono la voglia di raccontarle.
Poi la saluti e lei dall’uscio urla “và chian’! E torna, eh!”.
Se ne torna sola in casa, gli occhi di nuovo piccoli, costretti a rimembrare il via vai di quelle stanze e quanto più era coltivato l’orto quando lo curavano in due.
Zia Zelinda è più tranquilla, non aspetta visite come la sorella. Lei che un po’ s’è stufata di guardare la televisione perché tutte ‘ste parolacce inglesi non le capisce.
Abbiamo guardato insieme quel film con Alessandro Siani, “Ti lascio perché ti amo troppo”, emozionandoci su una scena che in verità con la trama centrale aveva poco a che fare. Aveva a che fare coi ricordi, però.
Di ricordi le zie ne hanno tanti.
Mi parlano entrambe di come mio nonno fosse uno sciupafemmine…sarà che crescendo con 5 sorelle, sulle donne di cose ne aveva imparate. Vorrei confessare loro che tante cose le ho imparate da lui e tutte funzionano ancora. I geni, in fatto di numero d’esperienze, mi concedono un discreto curriculum, ma non è questo che mi piace aver imparato da lui, quanto più la qualità nel rapporto in sé. Che poi, posso parlare dell’atto pratico, perché di come stare a fianco a una donna, di come prendersene cura in una relazione, di come amarla, non mi insegnò granché.
Chissà se ne conosceva i segreti.
Approfitterò della mia permanenza qui per godere di questa famiglia che mi ero perso dietro, che come niente fosse mi accoglie come membro integrante. Ne sono parte più di quanto credessi.
Il sangue non è acqua, ripete zi’ Zelinda.
E dire che ci abbiamo provato ad essere una famiglia anche da soli. Ce l’avevamo dietro l’angolo, è la grandezza dell’angolo il problema.
Patatrac. La mia solitudine e il mio piano piano adattato appartamento sono stati invasi e pervasi dalla donna che profuma Gianfranco Ferré, in altri momenti anche detta madre, mia madre.
È divertente come le sia rimasta addosso la parlantina da suocera brontolona, più che da madre. Dopo avermi messo a soqquadro la casa, aver pulito ogni centimetro di pavimento e scombussolato l’ordine “pseudo-naturale” che gli utensili della cucina si erano formati a modo loro, dopo aver rintracciato e usato una lavanderia self-service a 120Km da casa mia – che, per inciso, mi ero rifiutato di cercare…per pigrizia – e quindi aver lavato ogni mio vestito/asciugamano/straccio/(sacchetto di stoffa) e aver steso panni in ogni angolo della casa, porte comprese…mi si è rivolta di sfuggita sfondando su quanto io abbia imparato vivendo fuori.
Capelli ovunque, almeno, qui non ce ne sono.
Che poi, vivendo fuori…
Mi rendo conto, sempre meno – appunto -, che se non ci penso, non ci penso. E se non ci penso, va proprio bene.
Mi rendo conto, anche, che io son proprio una persona piacevole quando non penso.
Penso più volentieri a ciò che perdon gli altri, rispetto a ciò che han buttato. Io sono un immondizia solo se mi immedesimo in quel che hanno fatto di me.
Altrimenti sono Dio. Se non io, chi?
E io potrei anche esserlo, se no non vedo chi.
Giorgio Gaber
Che poi, “Stronzo”. È giusto non dare per scontato si possa manifestare quel che passa per la testa, soprattutto se ciò potesse qualsivoglia suscitare lo sgomento e il fastidio di una amica. Che, diciamolo, non c’entra un emerito cazzo, l’amica, però in taluni casi si fa come con le lasagne: c’è la ricetta, ma poi chi vuole fa un po’ come gli pare e ci mette dentro quel che capita a tiro. La besciamella copre tutto.
A volte, trasformiamo le persone in bambole.
All’inizio sono compagne inseparabili. Le prendiamo per mano e le trasciniamo in ogni passo della nostra vita. Non c’è foto o momento di gioco che non le comprenda, non c’è ricordo che non le veda apparire. Poi, lentamente, il tempo scorre, e noi le riponiamo su una mensola. Le lasciamo lì, ad aspettarci, perchè le bambole aspettano sempre, anime racchiuse in un guscio di porcellana. Ogni tanto incontriamo i loro sguardi per caso, ed allora le prendiamo, e le guardiamo con affetto per qualche minuto, per poi farle tornare nel loro piedistallo impolverato. Altre volte, più semplicemente, giriamo lo sguardo. Perché sappiamo di dovere loro molti momenti di felicità e compagnia dopo un incubo notturno, ma nuovi giocattoli meno impolverati ci attendono. Alcune persone sono come le bambole. Perché restano ad aspettare che le prendiamo nuovamente in mano, per regalarci lo stesso sorriso di quando le avevamo abbandonate in un angolo impolverato della nostra vita.
Luna, sei sopra un mondo strano che lancia le sue voci in cielo. Luna, mezza luna o piena, serena passi e te ne vai…
Guarda con che pena si muore d’amore quaggiù.
In questo aveva colto bene, questo sentimento che alberga dentro, bieco e misero, altri non è se quel che è rimasto dentro di quella bestia umana, entrata senza chiedere per gridare amore ad una falsa Esmeralda.
Non so se Notre Dame De Paris sia il mio classico, di certo è il mio musical e il mio teatro.
Ti sto facendo fare un bel po’ di gaffe ultimamente. Ad avere le redini, le mani al volante, si riesce a spingere avanti tutto, ma la direzione non è sempre detto sia quella giusta. È che ti eri messo in testa una valanga di intenzioni che io non mi sento pronto di portare a compimento.
Sarà che forse ti avevo gonfiato un po’.
La realtà è malleabile, Luca, questo lo andiamo predicando da tempo. Tutto è quel che tu vuoi vedere. Come lo vedono gli altri, se lo vedono, è diverso da come lo guardi tu, ma è giusto così, altrimenti guarderemmo nella stessa direzione tutti e la nostra unicità andrebbe a farsi fottere. Se a guardare nella stessa direzione siete in due, non significa che stiate percorrendo la stessa strada, magari è solo un caso, qualcosa di momentaneo.
Saremo soli, Luca, saremo sempre io e te, anche quando abbiamo accanto altre persone siamo soli. Siamo io e te.
Può sembrare negativo, un modo di parlare stupido, ma veramente, nulla è importante. Come può contare se nemmeno esiste?
Avevamo iniziato a parlare. Ti ho confuso, ti ho reso più vulnerabile. Adesso ti scrivo.
Potrai tentare di liberarti di me, di uscire da qui e vivere là fuori, ma non riuscirai a eliminarmi. Sono la voce che ti ronza dentro, sono lucida, sono verità, sono schietta nel piazzarti di fronte la realtà come è, diversa da quella in cui finiresti col poltrire.
Non sei destinato ad essere. Non sei. Non sarai mai.
Siamo occhi, Luca, siamo circuiti chiusi. Osserviamo, giudichiamo, siamo esterni.
Passeremo il nostro tempo ad aspettare la fine, perché è quello che fanno tutti. La differenza è che non se ne curano, credono non arrivi mai.
Quanto manca? Dove stiamo andando?
Voglio la spada. Non mi piace quella di plastica nera, prestami la spada vera. Che Zorro potrò mai essere con una spada nera di plastica?
Non m’era mai successo, mai così. Non m’era successo di sentir pancia e testa e braccia e gambe svarionare, dar di strano.
Non m’era successo così di sentirmi estraneo e ora mi son dimenticato com’è sentirsi parte.
Oh, che son sbadato si sapeva.
Se però è così, se mi tocca ripartir da capo, se non c’è verso, se poi mi si va a ricostruire da zero…se non c’è lei con me e poi finisce che non torna…
Oh senti, spegni pure, che a me tutta ‘sta manfrina del via vai quotidiano, senza di lei, non mi va. Davvero, m’importa una sega a me del Louvre, m’importa una sega a me del mare, m’importa una beata fava del fare l’amore, del preparare il thè, del cucinar carbonara, persino della wok, del thè freddo alla pesca che puzza di piscio di gatto, del panino con la cotoletta e la salsina che mi garba tanto come lo fa lei, della tivù, dei film che metton sonno che son belli lo stesso se poi dormo e lei mi è accanto o se dorme lei e io son lì che l’accarezzo, m’importa una sega delle spiaggette del Talvera, m’importa una sega di Bolzano, del rosso un po’ scuro – fatele in un altro modo le tavolozze -, m’importa una sega a me dell’accoppiare i colori in generale – del nero sul blu -, m’importa una sega di S. Lorenzo – che cadano pure le stelle, che le stacchino tutte che tanto io non le guardo, che tanto son quelle, Venere compresa -, che mi tolgano pure i cereali col latte freddo, che Cristiano De André vada in pensione già ora – che ho iniziato ad ascoltarlo da quando lei è riuscita a farmi piacere quel solo 3 dicembre -, che la Moleskine inizi a produrre carta igienica, che non scrivano più libri, m’importa una sega dei reggiseni push-up se non servono a far sentire più donna lei – che tanto a me piace toglierglieli di dosso -, frega un cazzo a me di far foto, frega nulla di montare il proiettore, frega mene di scrivere sms, importa nulla della tascapane, di tagliarmi i capelli, di tagliarmi le unghie, che le sigarette le mettano anche a 20€ a pacchetto – mi frega nulla di quelle, che facciano male a qualcun altro -, m’importa una sega delle scie degli aerei se non c’è lei che mi urla addosso “tagliama”, che vadano a fare in culo tutti gli oroscopi se non prevedono che io possa in qualche modo riaverla qui, che…
Basta. Spegnete tutto.
Voglio essere libero. Libero di stare male. Libero anche di non respirare quest’aria che condivido, se mi va.
A me non interessa…
A me non interessa.
Io tanto me ne sto qui. Me la vivo bene.
Io sto qui. Dove cazzo vuoi che vada, tanto?
Mi vesto anche io al contrario sulle sedie.
Mi piace viaggiare.
Mi piace parlare, discutere di politica senza far capire quale sia il mio indirizzo, fare del mio lavoro il mio quotidiano e dare quel qualcosa in più ai miei clienti affinché apprezzino me oltre alle mie doti professionali.
Rincorrerò come te quella vita passata e perduta per anni?
Se scrivessi quello che mi passa per la testa adesso, dopo l’ennesima scenata, dopo un’altra sfuriata, finirei col pentirmi domattina. Forse anche subito dopo aver scritto.
Di una cosa son certo, non è di quella lì che mi innamorai.
Magari lo fa davvero per aiutarmi. Finge gelosia e fa di tutto per farmi incazzare e farsi detestare, puntualmente quando mi sento meglio, giusto perché in quel momento sono più debole.
Lo fa per aiutarmi e aiutarsi. Perché lei ha quel gran casino, quel gran frastuono che le lascia addosso troppo sale e le intossica la pelle.
Così ogni tanto me ne sputa un po’ addosso, così che io non mi dimentichi di stare male. Che non va mica bene.
Non ho probabilmente scontato la pena. A sapere almeno quanto dovrebbe durare…uno si organizza, in caso.
Ho lavorato più oggi, notte intera compresa, di quanto sono riuscito a fare negli ultimi due mesi. Indosso i nuovi occhiali da sole, blu, per coprire le occhiaie e gli occhi grigi, falsi.
Oggi ho rimesso giacca e cravatta e ho ripescato, con loro, il carisma che avevo mollato da qualche parte nell’armadio.
Ho deciso di rimettere in piedi l’azienda, sempre che in piedi ci sia mai stata.
C’è che mi prende questa carica e le cose ricominciano ad andare bene. C’è che se non faccio qualcosa adesso, finisco in stack overflow.
C’è che anche se mi sento osservato da un televisore di cartone, riesco a concentrarmi sull’obiettivo. Ride, un po’ anche di me.
Un colpo di reni estremo, indispensabile, mentre attorno a me si pronunciano cifre impossibili. Perché questo gioco dei grandi è bello tosto, ma a me le sfide piacciono.
Ho ricominciato a fissare i miei appuntamenti e progettare i cambiamenti.
Rispondo addirittura al telefono, pensa te.
#Aggiornamento delle 19:59#
Mi ha telefonato. Mi ha telefonato, capite?!? Mi ha telefonato perché vuole che ci incontriamo di nuovo e riprendiamo in mano il discorso, il progetto che ho in testa da anni per la provincia, il progettone shuttle, il mio lancio verso il tutto!
Mi ha telefonato lui perché vuole parlarmi e iniziare a lavorarci sopra.
Io non so cosa stia succedendo oggi, ma quest’ondata mi piace!
La cravatta non me la levo più se fa quest’effetto!
L’attesa del piacere è essa stessa piacere, porca paletta se è vero. Però è anche vero che le cose lasciate a metà sono quelle di cui più percepisci l’assenza, parole mie.
Oggi mi sento bene. Ieri anche. Anche l’altro ieri, a esser sinceri.
Bene di quel benino che ti fa stare meglio, dopo che per parecchio sei stato al massimo così così.
Un benino un po’ egoistico da un lato e masochistico dall’altro. Forse avrei potuto stare benissimo, magari addirittura meravigliosamente bene, adesso.
Ci sono persone che ti marchiano e altre che sono solo di passaggio, delle comparse, ma questa è cosa già detta, è un pensiero che ripeto da tempo.
Il problema è quando non sai chi hai di fronte, di quelle persone che ti marchiano, ma non sai se resteranno lì o se saranno solo di passaggio. Un po’ come sono io, che cerco di marchiare chiunque io incontri e ritenga degno di nota, ma poi finisco sempre con lo sparire.
Una persona un po’ come me, in un certo verso. Che mi ritiene, però, più simile ad altro, in un altro verso.
Me la vivo un po’ così.
Che tanto diversamente non riesco a fare.
Giulia mi raccontò che se pianti i paletti, anche quando li togli poi i buchi restano. Per coprirli ce ne vorrà di tempo, più che altro dipende da quanti paletti avevi piantato nel campo.
E finché ci saranno buchi, quel campo renderà meno e sarà più complicato coltivarlo.
Non basta sfilare il nero di dosso, però almeno il paletto lo si toglie. Piano piano, uno per volta.
Chi non si ama come può ammettere che altri lo ami? Tu mi amavi, ma io non lo ammisi, non lo ammisi mai del tutto, fu questo il mio errore. Errore? O fatalità, che rovinò tutto? Chi è responsabile della fatalità, del destino che ci accompagna? Il destino è ciò che non conosciamo di noi stessi. Io volevo soltanto amarti ed essere da te amato. E pur volendolo per convincermi ti chiedevo sempre nuovi baci e nuove carezze, e più ne ottenevo più mi nasceva dentro una strana orribile indifferenza. Tutto questo durò qualche tempo e credo che tu lo avvertisti, perché avevi improvvise malinconie, e quando io me ne accorgevo tutti i miei sentimenti si mettevano in allarme, un’angoscia tremenda mi prendeva, mi sentivo morire, mi pareva di nuotare sott’acqua senza poter uscir fuori a prendere fiato, e solo una tua carezza e il tuo sguardo pietoso riuscivano a liberarmene.
Va bene, forse è un po’ il periodo che mi rende un po’ più vulnerabile, ma posso assicurare che è la prima volta che un videogioco mi faccia commuovere.
Cristina Vespucci, cugina o sorella (ci sono voci contrastanti) del più noto Amerigo, è stata inserita nel gioco Assassin’s Creed: Brotherhood, come ancora prima in Assassin’s Creed II, come compagna di Ezio, il protagonista.
Dopo l’assassinio dei fratelli e del padre, Ezio è costretto ad abbandonare Firenze. Chiede a Cristina di seguirlo, ma lei rinuncia per rimanere vicina alla propria famiglia. Anni dopo il padre di Cristina decide di darla in sposa ad un certo Manfredo.
Ezio la rivede, ma sono già passati 2 anni dal loro ultimo incontro e non può certo impedirle di continuare la sua vita, poiché ne passeranno ben altri prima che lui possa concedersi ad una vita matrimoniale, così minaccia lo sposo, ma avendo capito che egli la ama, li lascia fare nonostante lei gli dica chiaramente di non amare questo Manfredo. Idiota.
Si incontrano nuovamente a Venezia a 8 anni di distanza, entrambi mascherati. Lei convinta di avere ricevuto un messaggio da Manfredo, raggiunge Ezio in un vicolo e lì scatta la passione in un bacio senza inibizioni.
Quando, però, si accorge che in realtà colui che la sta baciando con cotanto interesse è in realtà Ezio, si incazza, lo manda a cagare e gli dice chiaramente di non farsi più vedere.( Beh…c’è anche da dire che prima di lasciare che sposasse quell’altro, l’aveva baciata per poi dirle che l’altro sarebbe stato un bravo marito per lei…facendo due conti qualunque donna si sarebbe incazzata.)
La incontra per l’ultima volta a Firenze, durante la follia del Savonarola, inseguita ed attaccata dagli adepti del pazzo. Prova a salvarla, ma è ferita gravemente, non c’è tempo per chiamare un medico.
La prega di non morire, di aspettare, di restare con lui, le troverà un dottore, starà bene. Lei estrae dal petto il ciondolo che Ezio le diede 20 anni prima, appena prima di andarsene da Firenze e gli confessa “Ezio, non lo sai? Io sono sempre stata con te. Vorrei tanto che avessimo avuto una seconda occasione…”. E muore tra le sue braccia.
“Riposa in pace, amore mio.”
Un giorno per voi, ma senza mimose.
Le mimose appassiscono, ma tu, Donna che leggi, non appassire mai. Lascia sempre la D maiuscola mentre ti ascolti, non cedere, sii Donna sempre. Donna per sempre.
Per noi, quelli come me, piccoli burattini, la D grande è una guida. Noi, senza la D grande a fianco, siamo una u minuscola, talvolta solo “m”, come “maschio”, deperita immagine soltanto simile a quel che potremmo essere.
E oggi, giusto perché è oggi, pure doppia canzone. Roviniamomi.
Donna domani il mondo tuo sarà
nelle tue mani il mondo cambierà
Sai Tori, ti ho cercata ancora. Non ho mai smesso e non so quando la finirò.
Mi dicono che non ha senso rimetterci la salute, che se per te è stato così facile vuol dire che non eri quella giusta. Non eri tu la mia metà.
Ma, d’altra parte, chi sono loro per dirlo?
Ma, d’altra parte, chi sono io per dire che non è così?
Sto fumando un toscanello all’anice, come quelli che fumai con Davide, quel figo di tuo cugino.
Credo che nel percorso di qualsiasi fumatore, lo spazio per un toscanello si debba sempre ritagliare. Sono impegnativi, richiedono tempo, pazienza e calma. Non puoi sperare di fumarli in fretta, è come se richiedessero attenzioni precise.
Un toscanello devi imparare a fumarlo, non è una cosa che viene così. Devi sapere come fare per goderlo appieno.
E serve anche essere seduti, secondo me. Fumarlo in piedi gli toglie valore, toglie rispetto a quella cultura nostrana che l’ha reso così unico. Impagabile.
Serve esercizio, costanza. Un toscanello non è mai abitudine, altrimenti è passione sprecata.
Oggi sono tornato per l’ennesima volta all’Auchan, come ormai di consuetudine. Francesca non c’era neanche questa volta. È sparita, come te. Non la trovo da così tanti giorni, che anche se sono pochi sembrano un’eternità tante sono le volte che sono andato alla sua ricerca, che quasi mi domando se sia mai esistita. Se non sia stata frutto della mia ricerca di te, di quella che eri e di cui mi ero innamorato.
Sarà che vorrei avere il cervello a fanculo un’altra volta.
Devo ammettere, però, che non sto più pensando solo a te.
Sto entrando in quel paese delle meraviglie che tu disprezzi, perché a me piace vivere in quella fantasia.
Perché mi piace che sentirmi al telefono le scateni euforia nella voce. Mi piace renderla felice con poco. Mi piace che sia io a farlo.
Questo percorso, questa strada che stiamo percorrendo, mi avvicina sempre più a lei. E vorrei dirglielo, “non ti fidare di me”, perché ho ancora te qui dentro.
Vorrei arrivare ad amarla, un giorno. Vorrei che non ci fossero ostacoli, che potessi affrontare sereno questa esperienza e prenderla sotto braccio, renderla felice ogni giorno. Metterle euforia nella voce.
Ma sono io a metterli quelli ostacoli.
Ha ragione Masini, quando dice che se una storia naufraga si diventa vecchi come chi ha chiuso il mondo in un cassetto, deciso a non aprirlo più.
Ho paura di me. Della possibilità di distruggerle i sogni. Di essere io la causa.
Se penso a me con qualcuno, penso ancora a me con te. Anche se tu non ci sei più e non sono più certo di volerti qui, se tornassi indietro.
Chi lo sa quanto tempo passerà prima che riesca ad accettare la visione di una tua foto mentre baci un altro uomo ad occhi chiusi.
Chi lo sa quanto tempo passerà prima che io mi abitui all’idea che tu non esisti più, sei cancellata, sei passato.
Se non ti avessi conosciuta, chissà che persona sarei io oggi.
C’è una luna piena, rotonda, questa sera. E io dalla mia finestra la vedo bene, neanche a farlo apposta. È strano, se ci pensi, che le fotocamere digitali non riescano mai a fotografare la sua bellezza. Che nessuna foto le renda onore quanto l’occhio umano, la lucida realtà delle cose.
La luna mi piace anche per questo, perché mentre di qua, da dove la guardo, è lucente, tersa, graziosa, dall’altro lato è oscura, chiusa, nascosta.
Che casino che è la vita. Che fottio ingarbugliato. Che bello che è scioglierne i nodi, però.
Di questo Luca sarai sempre la metà mancante. Ma di Luca ne ho conosciuti altri, anche questo cambierà. Tutto cambia, fino a quando non tace.
“Però non starci male tu….io te l’ho detto perché me le sono trovate davanti”
No. Figurati…
Anzi, fai bene.
Starci male…io?!? Nah.
Prima delle 6:44 di stamattina io ero rilassato, tranquillo. Persino l’ansia da guida e multa napoletana era passata.
E adesso?
Adesso sono rilassato, tranquillo. Riguardo alla guida e alle multe napoletane nessun problema.
Che poi, non ero tanto a posto neanche prima. Ho dormito tre ore.
Ho passato un gran bel weekend, è il lunedì che mi fotte a me. E non è mica finita, perché stamattina telefonerà anche Beppe, un mio cliente, e io non saprò come dirglielo ma non ho ancora finito. Spiegaglielo che questa cazzo di connessione è una ciofeca. Persino il caffè qui non è così buono, anche se siamo in provincia di Napoli.
Ma quella è questione di acqua.
Ho giocato a Cluedo e ho perso clamorosamente, ma in compenso mi sono aggiudicato un nuovo soprannome. Mario mi chiama Dylan, come Dylan Dog. A me piace.
Ho nuovi occhi, dopo questo fine settimana. A me piace.
Ci sta, però, che Google Talk lo tenga disconnesso, dopo questo fine settimana.
Vorrei essere a 709 km, 6 ore 35 min, da qui. Ci sono coperte calde e medicine per il cuore. E magari anche un thè caldo, preparato con amore, da una persona che potrebbe prendersi cura di questo cuore malato.
Anche se, credo, se il cuore fosse un’autostrada a forza di coprire e riparare buche verrebbe fuori un casino. Come quest’autostrada in costruzione da anni. Ci si va a 60 all’ora, qui. Si va più lenti perché la strada è ancora a pezzi.
Bisognerebbe buttarla giù e rifare. Ma sai che fatica, sai quanto tempo…
A Bolzano le strade sono lisce. Anche a Trento. Ci puoi dormire sonni tranquilli, la strada non si fa sentire. Sarà per quello che ci si gode più la destinazione che il viaggio in se.
Qui a destinazione non sei sicuro di esserci arrivato. È perché non conosci le strade, per quello.
Sarà che è il 5 marzo. Non è mai andato bene il 5 marzo.
All’Auchan c’è il Bertolli Fragrante a 2,79€. Ne ho comprate due bottiglie.
Volevo prendere uno Yogurt, ma me ne sono dimenticato. In realtà avevo scritto le cose da comprare su di un biglietto, come faceva Frah quando ci mancavano cose in casa, ma ho dimenticato il biglietto a casa.
Sono passato all’Auchan ieri, stamattina e oggi pomeriggio, ma di Francesca neanche l’ombra. Al suo posto c’è una ragazza bionda con i brufoli.
Questa casa inizia ad essere un casino. È il lato stupido della vita da scapolo, imprimo il disordine che ho in testa anche nel posto in cui vivo.
Ho comprato gelati, tanto gelato. Cornetti e biscotti con la panna in mezzo, entrambi non di marca.
Ho anche preso la pizza. Così stasera mi vizio un po’, con la pizza. Pizza wurstel e patatine.
Chissà chi se l’è mangiata, se se l’è mangiata, la pizza americana che avevo preso a Rovereto.
Qui non c’è.
Un signore mi ha chiesto aiuto nel leggere la data di scadenza dell’olio, il Bertolli. È stata la conversazione più lunga di oggi avuta con persone reali e senza mezzi telematici.
Non mi sono arrabbiato neanche con quel testa di cazzo che ha parcheggiato attaccandosi al culo di Acse.
È che sei bella, sei stupenda, sei la mia bimba. In un certo senso è comprensibile che vogliano toccarti il culo.
Ma tu sei mia. Mi sei fedele, sei mia.
Dobbiamo trovare un autolavaggio. Mi prenderò cura di te.
Sono circondato da esempi palesi di quel che l’amore, quando ti ci dai, ti lascia addosso. Macchie.
Sbiadiranno col tempo e la candeggina giusta, dopo tanti e tanti lavaggi. Ti illudi che non ci siano coprendole, nascondendole sotto i vestiti o il make-up, ma basta poco e le vedi, nitide, sono ancora lì.
Ho pensato, talvolta, che il valore di una storia sia direttamente correlato a quanto tempo sia durata o stia durando. E invece mi sbagliavo, anche stavolta, dannato sapientello…
Tra chiacchiere di paragone, di ricordi, di frasi dette ridendo cui non avevi dato il giusto peso, affiora una malattia che abbiamo un po’ tutti. Anche chi ne sembrava uscito, curato, indenne.
È un rifugio, quasi una consolazione. Io non mi rendo ancora conto, mi sono a malapena affacciato a questa realtà e lo sto facendo da esterno.
Ho iniziato a guardare ed ascoltare e quel che vedo e sento è…
Sono macchie.
Sono porte che vuoi tener chiuse, ma se non rimetti in ordine quella stanza, se non ritingi le pareti e risistemi i mobili, rimarrà tutto così. Quel dolore che non sai più cos’è, che hai addirittura dimenticato di avere lì, ti torna addosso di colpo quando qualcuno prova a entrarci dentro, a gestirsi uno spazio, quello spazio, dentro di te.
Oppure, altro caso, ti rendi conto che l’hai adagiata nella camera degli ospiti, ed hai continuato a muoverti lì dentro, convinto che fosse quella stanza. Tanto la chiave era simile, è stato facile ingannare ed ingannarti.
E lei non lo sa.
La differenza è che un’ospite prima o poi inizia a starti scomodo.
E così già stai valutando quale sia il momento giusto. Già sai che tornerai a camminare solo.
Poi ci sono io.
Io che sto aprendo le finestre per arieggiare e ho coperto il ricordo con una tela leggera. Juventus, ventiquattresimo scudetto.
Una volta tanto il calcio mi torna utile.
Chissà che poi non trovi una ragazza della stessa misura. Che le stiano bene addosso quelle parole che a lei donavano tanto. Che voglia indossare me così come sono, anche se sono usato. Anche se c’è ancora il suo odore sui miei vestiti e ci metterò un po’ a lavarlo via.
Che poi, io a fare il bucato sono una frana.
Ho rivisto Francesca per chiedere una SIM Vodafone(che alla fine non ho preso).
Indossa una tutina grigia e già lì io, che ho una mente perversa, inizio a scollegare il cervello. Però poi ripenso al concerto tributo di Gigi D’Alessio e, va beh, questa ragazza non fa decisamente al caso.
Gigi D’Alessio una beata sega…
Le chiedo di mostrarmi le offerte per la chiavetta e squilla il cellulare… La solita “Ai se eu te pego” che sta spopolando
“Sta squillando il tuo cellulare, rispondi pure!”, le dico.
“No, questo è quello del negozio.” Risponde.
“Ah, per fortuna…detesto questa canzone!”
“No va beh, io non ascolto questa roba”
“Ah giusto, tu ascolti Gigi D’alessio! :D”
“Ma no, che Gigi!”
“Che suoneria hai, allora?” Fatti i cazzi tuoi, genio!
Io non dico più un cazzo.
Teo, dillo che mi stai prendendo per il culo. Gliel’hai impostata tu?!?
Stallo.
“Ah figo, li conosco! Va beh…ehhrr…bon, ci penso e ci sentiamo in settimana, Frah.” Do’h. “Cioè, Francesca!”
“Chiamami pure Frà, che problema c’è!?”
Oggi, per la prima volta, mi sento a casa, nonostante sia di nuovo solo e in una città che non conosco affatto, in un appartamento minuscolo che piano piano sto colmando.
Inizio a chiamare questo posto “casa”.
Certo che è strano…però alla fine è qui che sono. Sono a casa.
Chissà poi che diavolo succederà dopo…chissà se. Chissà se lei o se io.
Chissà.
Non sono decisamente tagliato per i sentimenti. Finisco sempre col fare grandi casini. Io.