La prossima mi viene meglio.

Ho iniziato a deglutire quel che non mi va giù di me e della vita che conduco. Lo faccio con un chiodo fisso nella testa, una illusione cui mi sono abituato senza rendermene conto.

Non ho ancora capito cosa sarei voluto essere, che cosa avrei voluto fare, quando e come avrei voluto o preferito accadesse. Non mi rendo conto di quel che arriva, figuriamoci la postilla ipotetica.

Penso che, va beh, la prossima volta la farò in modo diverso. Magari la prossima volta mi va meglio.

Il problema è che con prossima volta intendo prossima vita, che è un po’ stupido se collego che in teoria qui ho praticamente appena cominciato.
È un po’ come quando un film non mi piace granché, ma lo guardo comunque fino alla fine per via della mia fissa per le scene aggiuntive nei titoli di coda.

Di prediche e parole razzolate in malo modo.

Vorrei liberarmi, una parte di me già lo sta facendo, ma non riesco, non riesco, non riesco, non riesco, non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di un ragazzo coi capelli lunghi, ubriaco, che accarezza la schiena della mia ex ragazza, ubriaca. Tre, forse quattro giorni prima era un nessuno e quel tanto bastava a portarmela via.

Brescia è una città grande, ci si perde se la si vive a piedi tra lo smog e la puzza di pioggia. Tanto grande da contenere entrambe le versioni di entrambi.

Ascolto i passi della ragione andare via, abbandonarmi. Diventare una persona qualunque.

L’astronauta russo si innamorò del ticchettio che lo faceva impazzire e solo a quel punto iniziò a sentire la musica.

Di con su per fra sa.

Le preposizioni non le ricordo, né mai le ho sapute elencare.

C’è la frenesia di un gesto o una parola incauti, pronunciata male per qualsivoglia ragione o senza neppure l’accenno di un senso, che separa quella che può essere una giornata fantastica dalla solita routine spaccacoglioni e ingarbuglia testa.

Da un po’ di lune il mio egoismo è decentrato dall’inadeguatezza del mio non ricordarmi di pensare agli altri, al punto che non faccio altro che pensare. Agli altri. Agli altri nei miei riguardi, s’intende.

Penso e non sono capace di arrivare ad alcun punto. Penso senza farne parola alcuna.

Crisi un cazzo.

Niente di nuovo, dopotutto.
L’Italia è gestita all’italiana da troppo tempo e ultimamente pare partorire più imbecilli di quanto era già solita fare nelle generazioni passate.

Non è la crisi.

La crisi è ovunque, è una scusa, una paranoia. La crisi è come l’uomo nero nell’armaio o il mostro sotto al letto, non esiste, è nella nostra testa, nella nostra paura, nel nostro lamentarci disinformati e stupido bieco triste non essere in grado di dibattere.

Un’italia di stupidi gestita da stronzi.
Parliamo di crisi economica, vogliamo parlare di crisi dei cervelli? A quel punto sì che vien da avere paura, cazzo.
Quella non è utopia, siamo noi. Siete voi.

L’Italia è morta, andatevene finché siete in tempo (italians.corriere.it)

Diversamente fragile.

Non è questa la via che sognavo da bambino.

L’amore non sta negli infissi migliori
Che vi tengono i ladri lontano
L’amore sta nelle case in rovina
Che cadono a pezzi senza padrone
Sta nelle case senza le porte
Che quando piove ci posso entrare
Però che cosa volete che sappia
Io che non sono capace ad amare?

Ma ormai…

Non c’è niente di speciale in qualcosa che chiunque può avere. Che sia amore, che sia un momento, una carezza, un bacio, un viaggio.

Amo le mie conquiste, le difendo, sono solo mie. Sono le soddisfazioni che mi da il mio lavoro, la mia esperienza, adesso.

Continuo a odiare Firenze e continuo a odiare. Punto.

Mi sto mangiando il fegato.

Per sopravvivere, ecco perché.

Avevo poco di cui ridere e cercavo di ridere per tutto. Far ridere e ridere.

Sei quello che la gente preferisce tu sia.

Vorrei dirti che il thè lo prendo sempre alla pesca, e sulle patatine non metto mai il ketchup, vorrei dirti che quando piove di solito dimentico l’ombrello, vorrei dirti che mi giro sempre le dita tra le mani quando sono nervosa, e che se rido troppo arriva persino a mancarmi il respiro. E il desiderio che esprimo è sempre lo stesso a tutti i compleanni. Vorrei dirti che la matita sugli occhi mi fa sentire più bella, che se mi abbracci e la mia sciarpa sa di te, potrei non levarmela mai più. Che adoro quando mi toccano i capelli, vorrei dirti che, dipendesse da me, vivrei sepolta sotto tutti i libri del mondo, che se mi dici “io ti amo” poi ci credo. Vorrei dirti che scrivo perché senza penna non so parlare; che mi basta una singola nota per indovinare la canzone. E poi l’amore non ho idea di cosa sia, ma vorrei dirti tutto di me, se prometti che non scapperai via.
Sarai sempre il più bel posto dove rifugiarsi per poter credere che tutto andrà bene.

Di notte si pensa di più.

L’ora legale passò, poi tornò ed ora è passata di nuovo.

Quanto diavolo è lungo il tempo quando ti concentri sulle lancette così spesso.

Il tempo mi prende per il culo, ancora. Catapultato in tempi remoti, miti, di quando valeva la pena svegliarsi perché era stato un peccato addormentarsi.

Ne esci sempre. Di questo sono certa. Tu sei il mio eroe.

Il senno della ragione lo nascondo nei Beatles più criticati.

Esperienza.

È un continuo rinnovarsi per poter ripetere gli errori con più consapevolezza.

Non sopporto più Firenze.

Sei ostaggio di te stesso, delle tue mancanze.
Margaret Mazzantini

Why do you complicate it that way?

Perché a me le cose semplici puzzano di scontate e imitabili, io non voglio essere imitato. Diceva Rosseau “se non valgo di più, sono almeno diverso”, me la sono stampata nella mente in più copie così da ricordarla anche con questa memoria che mi prende per il culo.

E un po’ sono stronzate. Perché le cose le faccio difficili, alle volte, perché facili non mi riescono. Perché ho la testa che fa un po’ come le pare e alla fine mi trovo a doverla raggirare, a fare giri districati così che lei non possa ribaltarmeli quando le pare.

So bene, ho imparato, che se non ti trovi bene con te stesso difficilmente riuscirai ad andare bene a qualcun altro. Vendi bene solo se vendi qualcosa che compreresti.

Pasqua una beata fava.

Ci son libri che smetto di leggere a metà perché è il centro ad annoiarmi o infastidirmi, anche se magari il finale sarebbe bello.

Ci sono anche quelli che ti emozionano al centro e poi finiscono di merda, comunque.

Un libro non è come un film, un libro non lo leggi in streaming. Finisce che inizi a leggerlo perché l’hai comprato, perché lo vedi lì sulla mensola, perché ti va di sentir l’odore della carta.
Per quanto io legga un sacco di ebook e abbia pensato più volte di comprare un Kindle, difficilmente lo farò. Le mani, devo metter le mani sulle cose. Devo toccare, tastare con i polpastrelli e sentirli vibrare.

Son sempre stato assuefatto dal tatto, io.

Perdita di contatto.

“Dottore… una volta che ti hanno lanciato giù da un ponte a 120 all’ora non inviti la felicità a entrare senza prima averle fatto una perquisizione completa!”

David Aames, Vanilla Sky

Consiglio fondamentale di sopravvivenza nr. 3: mai mischiare lavoro e sentimenti.

Sollevato dall’incarico.

Non ci rimango male per me, ci sono altre millemila cose da fare e se devo esser sincero non dovermi più occupare di questa è un bene. Mi sento sollevato, vorrei quasi ringraziare…e non è da me. Non è da me perché l’unica volta che provarono a “sollevarmi dall’incarico” tu c’eri e sai come la presi.
Ancora adesso ci penso ogni tanto, a quei pugni sul clacson e quelle urla disperate. La consapevolezza di non farcela, di non essere abbastanza seppur io mi sforzassi di dare il meglio, più di quanto la mia mente e il mio corpo potessero reggere.
Studiavo i modi, i metodi, la psicologia di vendita, tutto. Volevo sfondare e volevo che le persone mi guardassero come si guardan quelli che son riusciti.

Ci rimango male per te. Per quella persona che contava su di me, non quella che ha preso il tuo posto.

Quella persona che ogni tanto mi guardava con ammirazione e vedeva per noi un futuro bello. Sentiva che ce l’avrei fatta, che avrei sfondato prima o poi.
L’ho delusa. Ho fallito un’altra volta.
Di solito quando fallivo e mi abbattevo, si abbatteva anche lei con me, crollavamo e ci rialzavamo insieme. Non senza qualche livido, ma quelli vengon quando si cade male e noi male ci cadevamo sempre.

“Non capisco perché non ti ci metti seriamente, non ci vorrebbe niente per te” non so quante volte l’ho sentita pronunciare e da quante persone prima di oggi.
Io sono quello che a scuola aveva la testa ma non era interessato ad applicarla, dicevano.

Mai nessuno che avesse le palle di guardarmi fisso negli occhi e dirmi “non vali un cazzo”.

Avevo bisogno di sfide. Faccio così io.

E senza dubbio sono arrugginito. E mancano incentivi a buon prezzo.
Sognavo di creare attraverso la mia tastiera, speravo l’università sarebbe stata una spinta ad attivarmi. Pensavo avrei realizzato siti web, mi mettono a disegnare lenzuola per la nuova linea di un’azienda da raffinati che non avevo mai sentito nominare. Qualcosa è andato storto.

Tempesta:~ phaberest$ clear

Magari funziona…

No.

PS: I consigli nr. 1 e 2 non sono mai stati pronunciati, ma Jecht insegna che se parli del terzo, prima o poi qualcuno tornerà per conoscere i primi due.

Le foglie son rimaste un po’ deluse
Avrebbero voluto volare almeno un po’
Don Chisciotte non sa più con chi combattere
Le mie scarpe rotte non sanno dove andare

Non soffia più
Non muove niente
Non soffia più

Mai così. Così mai.

Belle, belle a tal punto, mai.

Le polveri si confondono, nella spiaggia.

 È un bene che tu non mi veda ora, né che mi senta, né che mi parli.

Riverso nuovamente nelle correnti, tra gli scaffali, a pensare a cosa cucinare per me e decidere di prendere qualcosa che si cucini da solo. Yogurt, per lo più. E arance.

Vorrei conoscere qualcuno, ma al tempo stesso mi assopisce chiunque io conosca.

Ho la pizza delle 5 sullo stomaco.

Devo ricominciare a dosare meglio il mio tempo. E dormire. Di notte, magari.

Le mie sculture di cenere policroma.

Quanto tempo è che le cose non funzionano?

Avevo braccialetti diversi, un’altra collana, più capelli, più sicurezza in me e nel mio ruolo. Meno riguardo il mio futuro, ma a quello ci si pensa sempre dopo.

C’erano libri di Coelho, una lista contatti colorata, l’odio ingiustificato per un mondo che aveva come unica colpa l’essere più grande di noi e, se volevo farmi capire – e con qualcuno anche no -, c’era chi mi capiva.
Parlavo la metà e dicevo il doppio.

C’era il tempo e lo odiavo per quel che era stato e aveva portato, non mi spaventava. Non temevo nulla, in effetti.
Ascolto mia madre perdere colpi, di tanto in tanto, e immagino come sarà tra cinque, dieci, venti anni. Si allontanerà da me come io mi sto allontanando da lei, seppur siamo più vicini adesso di quanto siamo mai riusciti a fare. Sente il mio cuore battere nelle sue mani, come all’origine di tutto il mio percorso.

Qualcuno viveva la mia vita meglio di me, anche se si sentiva spento e aveva la presunzione di potersi liberare di tutto quel che aveva senza alcun rimpianto. Convinto che già gli fosse stata tolta la chance di vivere una vita normale.

Arrivarono i viaggi, l’indipendenza, il lavoro. Baci, incazzature, spremute di testa, anelli e bevute di cuore.
Quella voglia di essere in due, che ha reso flebile un’identità già approssimativa e l’ha rielaborata per renderla in qualche sorta incompleta e in altre inefficace, da sola.

Mi sono perso le ore, i giorni, i mesi.

Qualche notte, i giorni di festa, le angosce quelle sere a litigare in macchina.

La consapevolezza che sia necessario un restart completo e che non abbia senso tornare indietro.

Quell’amore che ho cercato in tutte le forme, non trovandolo più.

Il rossore delle gote per qualcun altro, che io ho portato a compimento. Indice di qualcosa che nasce e sintomo irrevocabile di qualcosa che muore. Spezza in due i pensieri e li mescola alla parata delle armi.

Sono quel che resta di quel che sono già stato l’altro ieri, non dovrebbe essere poi così difficile.

E ora ringhio che voglio essere lasciato in pace, che non mi interessa più, che non è più affar mio. E non mi va di ripeterlo.

Non si ferma e non puoi farci nulla.

Se ne sta fermo, immobile di fronte con lo sguardo concentrato e le spalle rigide. La fronte fredda e la gola scoperta, t-shirt aderente, Grigia.

Inclina la schiena e la testa, con lo sguardo fisso.
Porta le mani chiuse a pugno nei pressi del volto e i gomiti aperti verso l’esterno, più alti.

Passo indietro. Passo indietro. Passo, passo, passo, passo, passo.

Apre le mani, allunga le braccia lungo la schiena, corre in avanti!

Corre e non lo si può fermare. Corre senza guardare, fissando lo stesso punto, sempre. Corre.

Rose senza profumo.

Sorrido per vendermi a buon mercato.

Questa è una di quelle che ho intenzione di conservare, ché non tutte le storie si posson raccontare a chiunque.

Ché talvolta val la pena farle crescere, evolvere, implodere.
Fino a che non è mia, è una storia che val la pena comunque portarsi dietro.

D’altra parte, non ne esiste alcuna.

Fra i miei piatti di ieri e i ricordi di noi
è quasi un anno che mancavi
Un anno che ci provo a trascinare via
Tutte le cose tue da casa mia e dall’anima
Ed ogni volta è fatica sprecata se poi
Rimane sempre qualcosa impigliata scordata nei cassetti

Di rose di cui nessuno ha più avuto cura, dal botanico all’alimentare.

Di quaderni che continuano ad avere lo stesso inchiostro, lo stesso spessore, con parole diverse.

Di qualcosa che è morta da qualche parte.

Di un’onda che nessuno ha seguito giungere all’orizzonte, controcorrente, diversa dalle onde che si vedono, che salate si toccano e seccano le labbra. Lasciano macchie bianche sulla pelle.

Luna piena.

Alice: But I don’t want to go among mad people.
The Cat: Oh, you can’t help that. We’re all mad here. I’m mad. You’re mad.
Alice: How do you know I’m mad?
The Cat: You must be. Or you wouldn’t have come here.
Alice: And how do you know that you’re mad?
The Cat: To begin with, a dog’s not mad. You grant that?
Alice: I suppose so,
The Cat: Well, then, you see, a dog growls when it’s angry, and wags its tail when it’s pleased. Now I growl when I’m pleased, and wag my tail when I’m angry. Therefore I’m mad.

Arriva poi quel momento in cui mi sento perso e se vogliamo dirla tutta anche solo. Disinteressato, direbbe qualcuno – e saprei dire anche chi -, ma in verità credo sia più un essere distratto o, nella peggiore delle ipotesi, interessato a troppe cose.
Un po’ come stasera, o meglio stanotte, che mi sono trovato a cercare la luna a destra, dove ero solito guardarla, e non trovarla. Poi, ore dopo, alle porte dell’alba trovarla lì, piena, tersa, splendida. Lì e solo per me, mia. Raggiante e bianca, tonda e pulita.

Forse è questo che mi fa sentire inadatto. Non ho una guida e cerco di camminare a modo mio. Sono così pieno di me, in apparenza, da pretendere di non avere bisogno di nessuno.
Fino a rendermi conto che non ho semplicemente trovato nessuno da seguire.

Liscia o gasata? Alle 7, si figuri.

I messaggi che mando non vengono recepiti.

Sono un pazzo che vanvera parole nel buio e morde con rabbia una pezza di stoffa rossa.

Difetti nella comunicazione, che sembra dover essere piatta. Palese.

E non dormo la notte. E mangio la metà. E se dormo dormo di giorno, col telefono spento.

Déjà vu.

Basta abituarsi al cambiamento. Anche se stravolge tutto, certo.

Mal che vada mi ritroverò nuovamente solo e mi trasferirò a Fanculo.

Chiedo solo di stare bene, che quest’anno si chiuda e che io stia bene. Se riesco a far stare bene anche lei, meglio. Bene perché quest’anno di merda è stato un continuo mal di stomaco.
Bene perché metto volentieri a rischio tutto se alla fine posso avere anche un pezzo del mio nirvana.

Chi è stato innamorato, innamorato davvero, si riconosce: non si accontenta, non ci riesce. Non si accontenta di due baci dati a caso in una discoteca. Non si accontenta di una notte di sesso. Non si accontenta di una storia tranquilla. Non si accontenta di chi è “bello ma non balla”. Non si accontenta dei “forse”, dei “se” dei “ma”. Chi ha incontrato l’amore si riconosce: potrebbe vagare anche tutta la vita come un disperato per riviverlo, almeno una volta, almeno mezzo minuto. Lo vedi camminare con gli occhi preoccupati, malinconici, speranzosi, lucidi di ricordi. Chi ha amato non può fare a meno di volere altro amore.
Susanna Casciani

A volte mi mancano le parole, ma a te ho sempre un sacco di cose da dire.

Mercante di storie.

Libertà l’ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.

Respiro.
Accosto a lato della strada e lascio che sia la musica di Faber a quietare quest’ansia che mi si forma dentro, mi pesa addosso, mi trascino dietro.

Mi piacciono i miei nuovi panni, il nuovo profumo sul cuscino, i capelli sul cappotto. Mi ci posso abituare, ma il prezzo da pagare è riuscire a sanare quel che di vecchio di aggiunge a quanto già accantonato, in quel cumulo di pensieri e sono stato che nascondo nel mio bagaglio a mano, la stessa che pulsa nella ventiquattrore che ho messo via e non uso più così sovente.

Accontentarsi. Questo non m’è mai riuscito bene, ma se non altro ci ho sempre provato, fino ad abituarmi, alle volte.

La verità è che non ascoltiamo la stessa musica, che talvolta mettevo su, ma tempo addietro, con altri gusti. Gusti che cerco di spremere fino a farmela piacere di nuovo.
La verità è che la fobia per i piedi, il fastidio per le mani nei capelli, lo scazzo che parte senza accenno di logica, la porosità della pelle lungo la schiena e come si inarca quando le si fanno i grattini, queste ed altre caratteristiche non fanno che ricordarmi giorni che non ti riguardano affatto. Non sono tuoi e non sono miei, seppure a logica lo sono stati.
Sono cose che ho amato, usate fino al midollo, odiate.

E poi c’è questa gabbia fisica. Questo corpo debole al sudore. Quest’acquila che hanno convinto gallina per un tempo troppo lungo, fino a dimenticare come si vola.

E io, questo, ancora non so mandarmelo via. Mi lascio buttare giù.

Sono giorni sereni, se non altro.
Tutto a posto. Stanco. Deluso. Affaticato.
Sereno.

A confronto questo è il paradiso.

Il mercante di storie non racconta mai la propria.

Continua pure a farti i cazzi tuoi.

Sarà sempre una donna.

Spazio. Ovunque una marea di spazio.

E colonia.

Non ci son più battaglie, ma sfide. Sfide da vincere, assaporare. Sfide.

È natale(?)

Brescia inizia ad’agghindarsi per l’evento con tanto di trono per il babbo natale nel centro commerciale e io mi domando…non sarà un po’ prestino?

Che poi, chi stabilisce quando è presto e quando è tardi?

Io agghinderei il 23 dicembre e smonterei tutto a luglio(se mi ricordassi).

Quando si ama

Perché non sei tornato?
Perché se tornassi qui, qui resterei. E io non sono ancora pronto per restare, fermarmi, stabilirmi.

Ma tornerai?
Tornerò.
Son cose che ti senti addosso, che prima o poi le farai. Scegli di sposare la donna che ami e che vuoi tua al punto da volerla portare sempre al dito, vuoi non poter scegliere la città dove vivere?
Non sono Bresciano…e nemmeno poi così nordico se proprio. Non ho appartenenze e se ve ne sono sono proprio ciò contro cui mi trovo a combattere ogni qualvolta faccia rientro alle mele verdi.

Pensavo di aver trovato casa, ma non era un luogo fermo e come le cose che non son ferme per forza di lì s’è spostato,
via, lontano da me e viceversa.

Scelgo io e ho scelto parecchio tempo fa…

Cambiano i sindaci e Prato non si può più dir rossa, i lampioni, i pavimenti a P.zza Duomo, i negozi, i colori…chiudono i cinema, per primo il Cristal – il mio preferito-, cambiano i mezzi, le vie, le strade…ma le cose mie rimangono.
I profumi nell’aria, le sensazioni di vecchio e rinnovato, la piccionaia che quando la vedi mi viene in mente l’odoraccio che aveva la pasta scotta all’inverosimile affinché fosse tanta – che mio nonno aveva a cura di portare a quei puzzoni caconi anche se non si poteva, dicevano -…e prima o poi chissà che ti ritrovo anche disCharis, ci penso ogni tanto.
Mi mancano un sacco di cose, ma difficilmente me le rammento. Ricordo molto più con i sensi che con la mente.

A far bene avrei sempre dato più importanza ai miei sensi che al resto.

Quando la si sceglie, dicevo, la può diventare brutta e intollerabile, ma la sarà sempre bella.
Prato è bella davvero. E non fa male.

Firenze un po’ meno…e ‘sta storia della provincia i miei nonni fan bene a non sentirla.