No soy extraño. Sólo no soy normal. – Salvador Dalì
Oh, va a finire che se mai avrò dei figli parleranno anche lo spagnolo.
Ci ho provato, Italia, ci ho provato fino all’ultimo.
Oh, va a finire che se mai avrò dei figli parleranno anche lo spagnolo.
Ci ho provato, Italia, ci ho provato fino all’ultimo.
Tы дала мне два дела:
1) не звонить к тебе,
2) не видеть тебя.
И теперь я занятой человек.
Есть еще третье дело:
не думать о тебе.
Но его ты мне не поручала.
Ebbene, era come se avessi dormito negli ultimi anni. Tu ti presentavi nel mio bar, cogestito con un tizio che ti detestava – una sorta di hipster barbuto magro ma non troppo bello, un po’ come quel mio amico lì ma un po’ più fico, che sotto sotto possiamo essere tutti un po’ più fichi nei sogni – senza però particolare manifestare particolarmente la cosa.
Eri stanca, spossata, ma sempre bellissima. Con tuo figlio.
Tuo figlio che sarebbe potuto essere il mio, ma per qualche motivo mi ero dedicato al bar e tu a quel che interessava a te, io ero evidentemente un tipo da cocktail e tu una tipa da cose che interessavano te. E figli.
Era proprio un bel bimbo. Educato, pure. TI parlavo di come, quel figlio avrebbe potuto essere il mio e di come le scelte di vita avessero impedito che lo fosse.
Il punto è che io ero proprio un tipo da caffè e tu una tipa da figli. E cose che interessavano a te.
Ti parlerò di Huda, il mio amico indonesiano conosciuto a Kuta (Bali), anche se in realtà lui è di Java e ci tiene a specificarlo.
Huda è un tatuatore e un illustratore, è molto bravo in quello che fa e ho seriamente pensato di farmi fare un tatuaggio da lui, se non fosse che tutti i tatuaggi che voglio fare hanno sempre delle frasi e sono parole italiane quelle. Sono una persona che concentra molto sulle parole, da sempre.
Ho raccontato a Huda di un libro che mi piace davvero tanto e che sono certo amerà, “Il piccolo principe”. Non essendo europeo, giustamente, non sa un cazzo di un libro francese che un tizio ha scritto nel 1943, nonostante per un europeo sia “quel libro per bambini da cui tiran fuori un sacco di citazioni”.
Ho fatto emozionare Huda chiedendogli cosa raffigurasse il disegno mostratogli e quando lui mi ha detto “it’s a hat” e io gli ho fatto vedere che era in realtà un elefante dentro a un serprende. Poi gli ho chiesto di disegnare una pecora. Lui ha fatto il primo disegno e io gli ho chiesto di farne un’altra, poi un’altra ancora fino a mostrargli io com’era la pecora che volevo. Ho disegnato la scatola con dei buchi sul coperchio e con dentro la pecora, ecco come la volevo. La vedi la pecora nella scatola? Intendi dentro alla scatola? Sì, la vedi? Sì. Così la volevo!
Si è emozionato.
Emozionare le persone è una cosa bellissima.
È sera e ancora ci pensa, alla pecora nella scatola.
Quando rubavo a De André quella frase che è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra.
Ho praticamente 30 anni e piango ancora come un bambino di fronte a scene recitate.
A volte, solo a volte però, mi fermo ancora a pensare ai se e ai ma che mi hanno portato dove sono e ad essere quel che sono.
Insomma pare stia succedendo sul serio.
“Uno più uno, la somma più elementare, quella che rende possibili tutte le altre somme. Se non si riesce a fare più neanche uno più uno, vuol dire che nessun’altra somma sarà mai più possibile… Esisterà solo l’uno. Dunque esisterà solo l’io. Ognuno col suo egòfono acceso. Muto con chi gli sta intorno, loquace con chi ha il merito di rimanersene a debita distanza.”
Forse son sempre stato un laccio troppo corto per formare un nodo.
Luca. Lu ca. Lu-ca.
Suona ben strano, eh?
Ho sempre pensato che i nomi maschili che finiscono in A siano in realtà nomi da donna mal utilizzati. Non penso mai che uno di questi sia il mio.
Così corto, poi.
Sarà che solo Luca non lo sono mai stato.
Per un attimo non mi sono riconosciuto in nessuno dei miei nomi. Nessuno.
Mi sono ricordato che quelle due sillabe sono il mio nome grazie a una reminiscenza di quando da piccolo lo scrissi su un cassettino di legno che ancora mi balza davanti agli occhi, di tanto in tanto. Di Luca, scritto un po’ tanto alla Picasso. Non credo avessi ancora realmente imparato a scrivere. Non credo neanche avessi ancora mai frequentato alcuna scuola. Ero piccolo ed egocentrico, seppur con un nome super corto. Il più corto dei nomi per intero che conosco.
O meglio, uno dei (pochi) nomi (italiani) più corti che io abbia mai sentito nominare.
Più corto soltanto Dio.
Che quel bambino fossi io non ho alcun dubbio.
Io, Luca.
Serata serena, gente nuova, tutto regolare.
E intanto che da solo faccio rientro, mi fermo, entro in autogrill.
Compro a caso, perché sono entrato qui?, compro una coca cola di quelle grosse, da due litri, per pulire bene la bocca.
Torno verso la macchina, prendo una sigaretta dal cruscotto, una vera, la fumo per intero anche se fa più schifo ad ogni tiro che ingoio a forza.
E ora sono seduto e scrivo ad cazzum un post.
Com’è che sono qui?
Mi devo togliere questo odore di dosso.
Oggi sono incazzato.
Non sono io, non sono, non sei, non vogliatemene male. Prima o poi mi leci passerà.
Non dite nulla a.
Io non dico nulla a. Chiedimelo tra 15 anni.
Rispondi a quel cazzo di telefono.
E siamo morti a vent’anni
benedicendo di speranza troppe frasi,
rimaste sul guanciale.
Oggi va così.
Guardami. Mentre nell'emiciclo tutto è tumulto e invettiva, e volano oggetti, e i commessi faticano a riportare la calma, io rimango seduto nel mio scranno – insignificante tra i tanti – a testa bassa, con le mani nei capelli. Ho davanti qualche appunto, la metà sono parole cancellate subito dopo averle scritte. Cerco di dare ordine, ed è per te che cerco di farlo. Ma la fatica mi sembra immane. Ripiego i miei foglietti. Esco a fare quattro passi.Michele Serra – Gli sdraiati
Contraddizioni, è vero, ma mentre da un lato una parte di me che odio mi trascinerebbe in una insolente e sorda nenia amorosa, dall’altro lato mi ricordo anche io del perché.
Quel perché, per esempio, che mi lasciò come uno scemo ad aspettarti mentre tu parlavi con il tuo lui che non contava niente. Lui che ti rese ai miei occhi così sporca, così sbagliata. Che rese me così inutile, così… Così.
E allora è giusto così. Non siamo arrivati a questo punto per caso. Il caso non esiste. Il caso siamo noi che eravamo insieme, così sbagliati eppur così legati. Nonostante tutto.
Non ci capirò mai un cazzo, ecco cosa. Abbiam mandato tutto in vacca, ma è stato un gran bel tentativo.
Più passiamo del tempo insieme più tu ti ricordi del perché era sbagliato stare insieme.
Più passiamo del tempo insieme e più io mi domando se fosse veramente il caso di lasciarci.
Strana ironia.
E ti bacerei.
Quando mi rispondi male, ti bacerei.
Quando hai quel brutto muso, ti bacerei.
Quando mi ripeti quanto io fossi e sia sbagliato, anche lì ti bacerei.
Non vedo l’ora di tornare a casa e dimenticare anche questo intermezzo.
Se la vita è uno sport, io no, non sono un campione.
Voglio fotografare ogni cosa.
Togliersi dalla testa che non è una situazione transitoria. Che poi lo so, io.
Io lo ho sempre saputo.
È tutto chiaro nella mia testa, poi saranno i capelli, sarà il luogo, la pelle o che diavolo ne so.
Non c’è nulla che tu possa fare o dire, finché sarà così non avrai mai quel ruolo. Non ora. La maggior parte delle volte ti lascio parlare, ma c’è un motivo se siamo ancora single entrambi.
È vero, metto alla prova le persone. Lo faccio di continuo, è un gioco, una necessità,
Cerco il bello, lo strano, il diverso l’affascinante e credo, spero, ne abbia un po’, anche solo un pochettino, chiunque.
Persino in sogno.
E così c’era questa ragazza, una russa altissima, ma veramente alta, bella sì ma senza esagerare. Le chiedo “Stupiscimi”.
“Surprise me”.
L’ho fatto altre volte in passato. Gran parte delle persone va in stallo e mi chiede “Che cosa dovrei fare?”.
Eppure è facile, pensavo in sogno, che diamine…basta verante poco.
“Bu!”.