Detesto il televisore perché mostra ciò che potrei essere, ciò che sarei se realmente lo volessi, perché mi illude che se, e se, e se. E se.
Finge. Convince chi lo ascolta che tutto sia possibile, che l’uomo abbia il potere di trasmettere, far conoscere, insegnare attraverso una scatola, che si fa sempre più sottile e ampia, quel che è giusto da una parte, quel che è sbagliato dall’altra.
Tutte stronzate.
Se c’è una cosa che amo per la sua semplicità, quella è il cesso. Si, detto proprio papale papale, quel buco ceramicoso dove ogni giorno innumerevoli esseri umani depongono le proprie scorie puzzolenti.
E lui ingoia, manda giù, fino a quando si blocca. A quel punto spurghi un po’ e la routine ricomincia.
Il cesso è una figura vera, reale. Puoi mettere un cuscino al posto della tavolozza, gliela puoi fare di marmo, d’argento, d’oro, ma il suo comfort rimane quello: l’importante è che mandi giù tutto ciò che ci versi dentro.
Puoi immaginare, tu che leggi, un cesso a forma di televisore?
Appare.
Appare sicuro di se. Appare intelligente. Appare dinamico. Quello che sa dirti qual’è giusto e qual’è sbagliato.
Che si professa come tale almeno.
Ingannevolmente bello fuori quanto sporco e puzzolente dentro. Pieno di merda.
Mi hanno, ma probabilmente mi sono, dipinto un po’ così. Come un televisore, di quelli vecchi però, che non vanno mai troppo bene.
Per maestri e professori sono sempre stato un elemento fastidioso, quello che "se si applicasse potrebbe fare molto, vista la sua intelligenza", parole di misura standard che tentavano di invitarmi a far qualcosa, ma che non sono mai riuscite nell’intento.
Per mia nonna, invece, ero quello che "fa discorsi da vecchio", che ti rispondeva come avesse esperienza nonostante altro non fosse che un bambino.
Per mio padre ero un coglione, questo bisogna ammetterlo. Troppo giovane per le sue esigenze, ancora fin troppo stupido per vivere nel mondo degli adulti dove lui aveva trovato radici. Fu forse l’unica persona sincera in quegli anni dove da destra e da sinistra mi lanciavano addosso speranze di miglioramento, di crescita, di maturità.
Mia madre rimaneva neutrale, un po’ da una parte e un po’ dall’altra a seconda dell’esigenza. Fondamentalmente in tutti questi anni ha sperato scattasse qualcosa, ma non ha mai trovato riscontri positivi. Si è arresa vedendo in me un completo fallimento quando s’è resa conto che a 20 anni sono ancora fermo alla 3a superiore e corro in lungo e in largo per racimolare giusto quello spicciolo che mi fa arrivare a fine mese stringendo i denti. Ancora spera in qualcosa forse, ma non metto in dubbio che possa rimanere delusa di suo figlio per l’ennesima volta.
Guardami, sono l’impersonificazione del fallimento, della sfiducia. Cattivo gusto, sapore acre da mandar giù il più in fretta possibile.
Mi hanno gonfiato di cazzate, regalato visioni di un futuro preso in prestito, da restituire con gli interessi. Un futuro non mio, qualsiasi esso sia.
E ora almeno una cosa, almeno una, devo riuscire a farla.
Non so neanche da dove cominciare.
Alla fine di tutto rimarrà una stanza piena, ma di scatole vuote. Non certo vuota con scatole piene.
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